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Sirene

Cantano, suonano, incantano, piangono, ammutoliscono. Le sirene, figlie del mito e guardiane del mistero, sono predestinate a svolgere un ruolo emblematico nella storia dell’umanità. Presidiano la soglia tra luce e ombra, tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Il loro corpo ibrido è come un geroglifico che tiene insieme l’umano e l’animale in una endiadi di perturbante bellezza. Come se, nel momento stesso in cui la mente umana ha inventato queste creature, avesse lanciato una sfida poetica e conoscitiva a quel principio della «contradizion che nol consente», per dirla con Dante. Perché di contraddizione si tratta. Di una unione tra due nature, umana e animale, e proprio per questo l’esito è un essere fantastico destinato a impressionare nel profondo il nostro immaginario. Al punto che da oltre tremila anni le incantatrici interrogano la testa e il cuore dell’Occidente. Omero le ha trasformate in un mito immortale raccontando il loro incontro fatale con Ulisse. Ovidio ne ha descritto la metamorfosi originaria. Friedrich de la Motte Fouqué ha ammantato di inquietudine le loro vicende terrene. Hans Christian Andersen ha portato il lettore dalla loro parte fino all’immedesimazione. Gérard de Nerval e Matilde Serao hanno celebratole glorie di una delle sirene omeriche, Partenope, la mitica fondatrice di Napoli. Franz Kafka le immagina come mute e dispettose eroine antiborghesi. James Joyce le innesta come ultime vibranti epicuree nel flusso di coscienza dell’Occidente. Ingeborg Bachmann invoca la loro furia distruttiva per vendicarsi di chi le ha spezzato il cuore. A legare tutte queste variazioni sul mito sirenico sono il potere allucinatorio della voce e l’abissale mistero del canto.

Autori

(3 luglio 1883 – 3 giugno 1924) nasce a Praga in una famiglia di commercianti ebrei di lingua tedesca, Hermann Kafka e Julie Löwy.
Dopo gli studi di giurisprudenza, lavora prima presso la filiale praghese delle Assicurazioni Generali di Trieste e poi presso l’ente statale di assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro dove presterà servizio fino al 1922.
Pur viaggiando spesso per svago o per lavoro, trascorrerà a Praga gran parte della sua vita. I suoi ultimi anni saranno segnati da soggiorni e ricoveri in cliniche e sanatori.
In vita pubblica: Contemplazione (1908), Il verdetto e Il fuochista (1913), La metamorfosi (1915), Nella colonia penale e Un medico condotto (1919), Il digiunatore (1922-1924).
I suoi tre romanzi incompiuti, America, Il processo e Il castello, scritti tra il 1912 e il 1922, saranno pubblicati dopo la sua morte grazie all’amico Max Brod, insieme a frammenti, diari e lettere.
nasce a Sulmona nel 43 a.C. Compie la sua educazione a Roma dove frequenta il circolo letterario di Valerio Messalla Corvino, ed è amico di Properzio e di Orazio. Nell’8 d.C. è esiliato, per decreto di Augusto, a Tomi, sul Mar Nero: misteriose e mai chiarite restano le cause di questa durissima pena. Muore a Tomi nel 17 d.C. Ha scritto i poemi: Amori, Eroidi, Arte d’amare, Rimedi contro l’amore, I cosmetici delle donne, Metamorfosi, Fasti, Tristezze, Lettere dal Ponto.
(Dublino 1882 - Zurigo 1941), lo scrittore "modernista" per eccellenza, ha rivoluzionato con Ulisse (1922) il romanzo tradizionale, inaugurando al contempo la stagione dell'antiromanzo postmoderno. Ma già Gente di Dublino (1914) e Dedalo. Ritratto dell'artista da giovane (1916) presentavano grandi innovazioni sia tematiche, sia stilistico-retoriche, nei confronti del genere racconto/novella, e del "romanzo di formazione". Dopo aver rinnegato patria, famiglia e religione, e scelto un volontario esilio in Europa - prima l'Italia, poi Svizzera e Francia - non riuscirà mai a superare i traumi di quel distacco, inondando la sua produzione di inequivocabili riflessi autobiografici: Stephen Dedalus, Leopold Bloom, Gabriel Conroy protagonista de I morti, nonché Richard Rowan del dramma Esuli (1918), sono tutti spostamenti immaginari del suo "io". Punto fermo e nevralgico della sua esperienza di uomo e di scrittore sarà sempre la affascinante, conturbante compagna/moglie Nora Barnacle, modello di eterno femminino che si snoda per le pagine joyciane, attraverso la Gretta de I morti, la Bertha di Esuli, la indimenticabile Molly di Ulisse, fino alla summa filosofica, teologica, estetica di Anna Livia Plurabelle nel testo più ambiguo, e per molti lettori tuttora incomprensibile, La veglia di Finnegan, il cosiddetto Lavoro in corso, che gli occupò gli ultimi decenni di vita.
(gr. ῎Ομηρος, lat. Homērus). - Gli antichi attribuivano l'Iliade e l'Odissea (e molti altri poemi) a un poeta di nome O.; di lui, però, non sapevano nulla che non fosse leggenda. Le Vite di O. a noi giunte (una delle quali attribuita falsamente a Erodoto) sono in realtà romanzi; come è romanzesco il Certame di O. ed Esiodo, racconto di una gara tra i due poeti, giunto a noi in una redazione tarda, ma che ha fondamenti forse risalenti al 6° sec. a. C. Il nome, assai discusso e variamente interpretato fin dall'antichità, è probabilmente nome greco, che significa "ostaggio". Molte città antiche pretendevano di aver dato i natali al poeta: Smirne, Chio, Cuma eolica, Pilo, Itaca, Argo, Atene. A Chio esisteva in età storica una famiglia di poeti (gli Omeridi), che si trasmetteva la professione di rapsodo; ma probabilmente la tradizione della nascita di O. a Chio ebbe origine dall'Inno ad Apollo Delio, dove il poeta chiama sé stesso "il cieco che abita nella rocciosa Chio". L'attribuzione degli Inni a O. è certamente errata, quindi la tradizione perde valore. Anche la nascita a Smirne, considerata assai probabile dagli antichi (e anche da molti moderni), non è meglio documentata. Le vicende della vita del poeta sono ignote: tutto quel che è lecito congetturare è che O. sia stato cantore alla corte di un principe della Troade che si vantava di discendere da Enea, come proverebbe la profezia, contenuta nel libro 20° dell'Iliade, che nella Troade avrebbero in seguito regnato i discendenti di Enea.