La Historia de la vida del Buscón, llamado don Pablos, ejemplo de vagamundos y espejo de tacaños, di Francisco de Quevedo, fu pubblicata per la prima volta a Saragozza nel 1626, ma probabilmente fu scritta una ventina di anni prima, fra il 1603 e il 1608. Seguendo le convenzioni del genere picaresco, si narrano in forma autobiografica le peripezie di un personaggio, marchiato fin dalla nascita dall’infamia delle sue origini familiari. Animato dall’ambizione di diventare un gentiluomo, il protagonista, lungo un itinerario vitale che lo mette a contatto con la malvagità e la stoltezza del genere umano, tenta di entrare nel mondo degli aristocratici, assumendo delle false identità. Ma tutto è inutile: ogni sua impostura viene smascherata e Pablos, colpevole di attentare alla codificazione sociale, non riuscirà a recidere i suoi legami di sangue e finirà per integrarsi definitivamente nel mondo degli emarginati e dei delinquenti. Le miserie del mondo picaresco offrono al genio tipicamente barocco dell’autore lo spunto per caricature deformanti, note grottesche e un marcato umorismo macabro. La narrazione è animata dagli incalzanti giochi di ingegno, vocaboli equivoci, frasi che sgorgano dal doppio senso di un termine. Un labirintico mondo di parole, dal quale Quevedo lancia il suo implacabile messaggio: nobili si nasce, non si diventa; chi cerca di sovvertire l’equilibrio sociale e di ascendere a un rango che non gli compete, si macchia di una colpa che merita di essere punita senza possibilità di appello.