Avere un debole per i dolci è una vocazione? Rubare alla propria madre le ghinee messe da parte per i figli è veramente un furto? Quale è esattamente il rango sociale di un pasticciere? E ancora: che succede se un giovane e astuto calcolatore piega la letteratura d’invenzione a scopi pratici o, al converso, se palpitanti fanciulle annoiate dalla vita in campagna lasciano che immaginazione e drammi interni predominino a scapito della realtà? Racconto filosofico alla Thackeray, allegoria comica dalle molte allusioni, capolavoro di umorismo, Jacob e suo fratello è un caso unico nell’opera di George Eliot, generalmente dominata dal tono serio della narrazione realista. Ma come non mancano spunti comici nei suoi romanzi seri, così l’irresistibile comicità della storia del pasticciere millantatore ed egoista e del suo affamato fratello idiota continua, in una prospettiva tanto scherzosa quanto spietata, la lezione dei romanzi. È una riflessione sulle metamorfosi dello spirito puritano e sulle nuove ambizioni che muovono la società ottocentesca: sulle seduzioni consumistiche della cultura, dello snobismo e dello zucchero. Più esplicitamente che qualsiasi altra opera di George Eliot ne illumina la concezione del romanzo e le ragioni della resistenza al modello francese del suo grande contemporaneo Balzac, che le appariva "forse il più straordinario genio romanzesco che il mondo abbia conosciuto", ma anche qualcuno che "ci trascina con la sua forza magica, scena dopo scena, attraverso un mondo di vizio assoluto, finché l’effetto che produce questo passeggiare tra la carogna umana è una nausea morale". Per George Eliot invece, come scrisse Henry James che li venerava entrambi, il romanzo non era "principalmente una rappresentazione della vita il cui alto valore derivava dalla forma, quanto piuttosto una favola moralizzata, l’ultima parola di una filosofia che cercava di insegnare con l’esempio".