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Le concubine floreali

Storie del Consigliere di Mezzo di Tsutsumi
a cura di
3° ed.
978-88-317-5226-8

Nella produzione letteraria che fa seguito all’immortale capolavoro di Murasaki Shikibu, Storia di Genji, spicca questa raccolta di dieci storie che ne riprende alcuni temi e ne ripropone altri in chiave allusiva e talvolta ironica. Al pari di tante altre opere della narrativa classica, tuttora ignota è l’identità dell’autore, o degli autori, ma è molto probabile che almeno in parte sia di mano femminile, frutto di quelle tenzoni letterarie tanto in voga alla corte imperiale.

Le concubine floreali, che dà il titolo a questo libro, è uno dei dieci racconti che compongono lo Tsutsumi Chu-nagon monogatari (Storie del Consigliere di Mezzo di Tsutsumi), un classico del xii secolo, di anonimo, qui tradotto integralmente. Filo conduttore di quasi tutti i racconti è il rapporto amoroso tra i nobili della corte imperiale di Kyo-to, che assume di volta in volta toni gioiosi o velati di malinconia, ironici o briosi, in un susseguirsi di cerimonie, di equivoci, di incontri furtivi, di gare di fiori, di conchiglie, di musica. Protagonista assoluta è la poesia: versi inviava lo spasimante che desiderava ottenere più che uno sguardo fugace attraverso le cortine della dama dei suoi desideri, con versi rispondeva la donna, ancora una poesia era d’obbligo appena i due amanti si separavano. Poetare era un metro di giudizio in una società che faceva della bellezza e della raffinatezza i suoi canoni assoluti. Non mancano situazioni originali come nella Principessa che amava gli insetti, o con un finale a sorpresa come nel Tenente che colse i fiori di ciliegio, o l’arguta presa in giro di un monaco fanfarone in Quisquilia, o ancora l’alternanza di toni patetici e grotteschi in Nerofumo.

Yoko Kubota (1947-1991) ha insegnato giapponese all’Università degli studi di Venezia.

Autore

Nessuna fondata identificazione - dopo quelle del tutto inattendibili del passato - è stata possibile per l’Anonimo veneziano autore di questo solitario capolavoro, presumibilmente opera di un dilettante di teatro che avrebbe sceneggiato la vicenda legata a due nobildonne della famiglia Valier. Forse a partire da un perduto testo narrativo del più spregiudicato novellatore di tradimenti coniugali femminili della letteratura veneziana coeva, celebrato dall’Ariosto e dal Castiglione: Giovan Francesco Valier, patrizio senza privilegio, impiccato come spia dei francesi nel 1542, la cui memoria fu consegnata all’oblio e la cui produzione letteraria fu dispersa. In calce all’unico manoscritto che trasmette la commedia resta solo il nome di uno sconosciuto Girolamo Zarotto, per il quale si potrebbe pensare a un attore dilettante probabilmente incaricato della copiatura del testo da parte del patrizio Stefano Magno.