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La domenica vestivi di rosso

La domenica vestivi di rosso

1° ed.
978-88-317-4312-9
Non è un maschio Nerina, non ha cinque dita per piede come tutti i neonati, ma sei. Non la cresce la sua giovanissima madre di sangue, ma due grasse quasi madri, una col diabete, l’altra senza. Nascondere le dita dei piedi che, nell’immaginario del suo paese, di anno in anno diventano dieci, venti, cinquanta, è la sua prima prova di forza e resistenza al mondo. La seconda, quasi epica, è ammettere che, nonostante la sua bellezza, innegabile quanto la sua sensualità, sono solo i suoi piedi il polo d’attrazione per i maschi. Tutti vogliono, sempre e solo, cominciare dalla svestizione dei suoi piedi per poi magari, svelato l’enigma, non procedere oltre. Quel punto di debolezza, ad arte enfatizzato dal mistero, diventa il magnete con cui, invece, concupire e sedurre, secondo un progetto quasi cinematografico, di cui Nerina scrive il canovaccio negli anni della sua adolescenza, al liceo classico, e dopo, negli anni dell’università a Catania: anni in cui dal Nord veniva sganciato in Sicilia il Sessantotto come una bomba in tempi di guerra. Nerina seduce, recitando il copione di lolita, Mauro, Emmanuel, Giancarlo, più uomini che ragazzi, non cercando mai l’amore, ma recitandolo l’amore, sul miserabile set della provincia guardona. Nella vita si tiene alla larga dai sentimenti, terreno a lei sconosciuto, terreno minato, ove saltare in aria a ogni passo. Alla vigilia della laurea lo incontra, infine, il personaggio eccezionale che da tempo braccava, invano, per il suo romanzo d’esordio. Lo chiamano «il Professore», si sa pochissimo di lui, se non che alla vigilia della sua laurea, devastato dalla schizofrenia, aveva perso la mente e l’amore della sua Nerina. A sessant’anni vive in una magnifica, persino poetica, follia col suo vecchio gatto Platone, e scrive decine di tesi di laurea per ragazzotte della provincia, mentre lavora, ancora e incessantemente, alla sua, e non intende scriverci la parola «fine», convinto filosoficamente che non si debba mettere punto mai alla Bellezza, né la si possa confinare nella parola «fine» dell’ultimo capitolo. Quell’ultimo capitolo che, anche nel romanzo di Silvana Grasso, non sembra affatto mettere fine alla Bellezza, ma solo alla magnifica storia che vi si racconta.

Autore

è nata a Macchia di Giarre, in Sicilia. È filologo classico, ha tradotto dal greco Archestrato di Gela, Matrone di Pitane, Galeno, Eronda. Scrive racconti, romanzi, pièce teatrali rappresentate in Italia, Francia, Spagna, Belgio, e collabora con diverse testate. Le sue opere sono state premiate con importanti riconoscimenti, tra cui: il Premio Mondello, il Premio Brancati, il Premio Vittorini, il Premio Flaiano Narrativa, il Premio Grinzane Cavour Giovane autore esordiente e il Premio Grinzane Cavour Narrativa italiana. Nel 2017, all’Università di Utrecht, si è tenuto un convegno internazionale a lei dedicato, L’opera di Silvana Grasso: poetica, generi e filologia. Oltre a La pupa di zucchero ha pubblicato: Nebbie di ddraunàra (La Tartaruga 1993), Il bastardo di Mautàna (Anabasi 1994, Einaudi 1997, ripubblicato da Marsilio nel 2011), Ninna nanna del lupo (Einaudi 1995, ripubblicato da Marsilio nel 2012), L’albero di Giuda (Einaudi 1997, ripubblicato da Marsilio nel 2011), Disìo (Rizzoli 2005, ripubblicato da Marsilio nel 2019), 7 uomini 7. Peripezie di una vedova (Flaccovio 2006, ripubblicato da Edizioni Ets nel 2018), Pazza è la luna (Einaudi 2007), L’incantesimo della buffa (Marsilio 2011), Il cuore a destra (Le Farfalle 2014), Solo se c’è la Luna (Marsilio 2017), Me pudet. Poesie 1994- 2017 (Edizioni Ets 2019) e La domenica vestivi di rosso (Marsilio 2018).